Sibilla Aleramo, Una donna, Milano, Feltrinelli, stampa 1997, p. 142-143.
citazione
La prima volta che penetrai colla vecchia amica in alcune case del quartiere San Lorenzo, sentii divampare improvviso, anche nel mio sangue, l’oscuro istinto della distruzione… Su la strada il cielo splendeva intenso: i colli tiburtini, in fondo, sorgevano come un paese di serenità. E negli ànditi dei portoni già si obliava il sole; si salivano delle scale, chiazzate d’acqua, buie; e ai lati dei pianerottoli s’aprivano corridoi neri, e da questi uscivano donne scarmigliate, il seno mal coperto da camicie sudicie, lo sguardo ostile… Da quale profondità di orrore sorgevano le tremende apparizioni? E le voci rauche non imploravano neppure, davano notizie di malattie, di nascite, di scioperi forzati, di ferimenti, con indifferenza. Scendeva dai piani superiori qualche bimba bionda, ancora rosea, ancora coll’arco delle labbra aprentesi ad un sorriso schietto. Scompariva. E dalle stanze spalancate esalavano odori insopportabili, e dall’intero casamento, in basso, in alto, uscivano strilli, lamenti, richiami… Oh quel paese di serenità che si staccava ancora sull’orizzonte, lontano, quando tornavo su la strada! Rifugiarsi là, tra il verde e le acque, dimenticare che esseri umani, uguali a me, a mio figlio, a quella santa che mi guidava, vivono fasciati di cenci, col respiro corto, colle membra fredde, senza saper neppure che cosa li tien chiusi in quegli antri con mano di ferro! Il dovere era là, nella mischia, in faccia a quella realtà spaventevole.