Cerami, Vincenzo (1940-2013)

Codice
RM_0054
provincia
Roma
comune
Roma
nazione_autore
Italia
secolo
XX
luogo_citato
Quartiere della Magliana
genere
Racconto
coordinate
41.846569, 12.457073
fonte_bibliografica
Vincenzo Cerami, Fattacci, Torino, Einaudi, 1997.

citazione

Verso la fine di via della Magliana, lì dove la strada sembra incastrarsi tra cofani di macchine e bancarelle, prima di scatenarsi libera verso il mare e l’aeroporto, si apre all’improvviso una rientranza tra i muri alti di due edifici. […] In quel cortiletto, al numero 253, c’era la toilette per cani di Pietro De Negri. Ai tempi in cui avvenne in delitto, la stampa non mancò di inserire la vicenda nella cornice di degradazione sociale e di incultura in cui ristagnano un po’ tutte le periferie non solo di Roma e non solo d’Italia. E in effetti la storia della Magliana (anzi della Nuova Magliana, perché la borgata storica resta emarginata e lontana dietro i capannoni delle poche fabbriche aperte nel dopoguerra e oggi in gran parte chiuse, adagiata con le sue quattro case ai lati paciosi dei binari della Roma-Fiumicino) è la storia di un quartiere esploso nello sfiatare dei dieci anni e forse meno, e ai tempi del fattaccio del canaro stava già superando la fase di più desolante degrado. […]Trenta anni fa, solo trenta anni fa, la Magliana era un alternarsi di canneti e campi, di vigneti e prati in cui i pastori portavano a pascolare le loro greggi. Quella campagna piatta sui margini del Tevere, bruciante d’estate e brumosa nei mesi freddi, invasa tutto l’anno da nuvole di zanzare, era soltanto punzecchiata di tanto in tanto da capanne un po’ misteriose, sempre disabitate, nelle quali qualcuno lasciava gli attrezzi, le carriole, le falci, e che i ragazzini usavano spesso come rifugio durante le loro eterne guerre di sassaiole e mazzafionde. […] Le ombre delle mille gru che si innalzavano su quella terra di orticelli e di capanne dovevano però avere in sé qualcosa di mostruoso, se è vero che ovunque si allungassero (e si stiravano all’infinito, la sera, quando il sole rosso s’abbassava laggiù dalla parte del mare) bruciavano tutto, come un acido corrosivo. Nel giro di quattro, cinque anni al massimo, a cavallo tra Sessanta e Settanta, la Magliana cambiò radicalmente faccia, e il caso, i rumori, la vita dei nuovi arrivati, con tutta la frenesia di chi sa di dover smuovere giorni ognuno uguale all’altro, mutarono la landa in uno dei sobborghi più caotici e popolosi della capitale. All’inizio erano in gran parte meridionali, venuti a Roma in cerca di un lavoro che qualche volta trovavano davvero; ma poi cominciarono ad arrivare, da altre periferie, sfollati di antiche borgate che venivano di volta in volta risanate, dal Prenestino e dall’Appio, dal Casilino e da Fidene, dunque due volte sfollati. Arrivavano e si ammucchiavano nei casermoni di otto piani dell’Inpdai, costruiti sotto il livello del fiume, coi muri sempre al buio, ché la luce non entrava nemmeno a mezzogiorno. Nacquero quasi all’improvviso via dell’Impruneta, piazza Certaldo, via Vaiano. Come giganti obesi, corpi ingombranti, insaccati nell’argilla. Morsi malefici di assessori senza testa, e unghiate di palazzinari senza scrupoli, quelle strade erano semplici parcheggi a cielo aperto, di macchine smarmittate e vite umane.
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